Una ricerca stima in 50 milioni di tonnellate l’anno lo spreco di frutta e verdura che finisce in discarica perché ritenuta “brutta”. La forma dei frutti e delle verdure non sempre è perfetta, ma questo non significa che non siano comunque buone da mangiare. In quello che fino a quaranta anni fa era un paese soprattutto agricolo, un’affermazione del genere sarebbe suonata come un’ovvietà. Non nell’Italia – e nell’Europa – di oggi. Uno studio dell’Università di Edimburgo, pubblicato su Journal of Cleaner Production ha evidenziato come un terzo dell’ortofrutta coltivata nel nostro continente sia troppo “brutta” per poter essere venduta. Il totale è di circa 50 milioni di tonnellate di cibo commestibile in realtà al 100%. L’indagine sottolinea: non si tratta di cibo esposto in vendita ma scartato dai consumatori, bensì di frutta e verdura che non raggiungono neanche i punti vendita. Gli standard della grande distribuzione organizzata sono così alti che le aziende agricole che vendono ai supermercati “generalmente producono più cibo di quanto preveda il contratto, mettendo in conto che una parte del raccolto non verrà ritenuta idonea per essere venduta”, spiegano i ricercatori. Ma anche la frutta irregolare e un po’ ammaccata ha bisogno di essere seminata, irrigata e raccolta. E questo si traduce in un enorme spreco di soldi, di risorse alimentari e una notevole quantità di anidride carbonica immessa in atmosfera in modo del tutto inutile. Eppure questi prodotti un mercato potrebbero averlo. Potrebbero essere venduti a pezzetti, utilizzati per produrre piatti pronti o donati a chi ne ha più bisogno, suggeriscono gli stessi ricercatori. In Europa qualche iniziativa è stata presa. La catena tedesca di supermercati Lidl, ad esempio, per ridurre lo spreco di ortofrutta ha lanciato la campagna Too good to Waste in alcuni punti vendita del Regno Unito: ogni giorno vengono vendute cassette da 5 chili di frutta e verdura leggermente danneggiate a prezzo ridotto. Un’iniziativa simile è stata presa dalla catena olandese Albert Heijn. “È stato dimostrato che i consumatori, soprattutto se la frutta non perfetta viene messa in vendita a un prezzo più basso, sono molto propensi ad acquistarla – spiega a National Geographic Silvia Gaiani, ricercatrice all’università di Bologna nel dipartimento di Scienze e tecnologie agro-alimentari. “La questione resta comunque molto complessa: supermercati e consumatori si influenzano a vicenda”, continua la ricercatrice. Un’altra grossa fetta di spreco alimentare è costituita da quello che gettiamo nelle nostre case. Gaiani ha pubblicato, insieme a Sandra Caldeira, Valentina Adorno, Andrea Segré e Matteo Vittuari una ricerca sullo spreco di cibo in Italia. In particolare i ricercatori hanno individuato nove profili di consumatori. La buona notizia è che il profilo più ricorrente (il 35% del campione) è quello del consumatore “sensibile” che butta il cibo nella spazzatura solo quando è strettamente necessario, ad esempio se si è creata muffa, o se è diventato maleodorante. Queste persone cestinano in media 4,8 euro di cibo a settimana. La cattiva notizia è che la media nazionale è di 7 euro di cibo a settimana buttato via. Dall’altra parte della classifica, infatti, ci sono gli “accumulatori ossessivi”, che hanno il terrore del frigorifero vuoto e comprano troppi prodotti, con il risultato che oltre 12 euro di spesa a settimana finiscono nell’immondizia. Oppure gli “sperimentatori disillusi”, attratti dalle offerte speciali e sempre disponibili a provare qualche nuovo alimento che, però, spesso è sgradito al palato. Ma al di là dei nostri comportamenti ci sono le norme. In Europa la maggior parte dell’ortofrutta è divisa in tre categorie:
La categoria “extra”: prodotti di forma regolare, ben puliti e senza difetti;
I categoria: prodotti di buona qualità, di forma abbastanza regolare e che presentano solo lievissime lesioni;
II categoria: prodotti di qualità inferiore, con difetti dovuti all’esposizione al sole, leggere ammaccature e forma irregolare.
Nei supermercati troviamo quasi solo le prime due categorie; per trovare frutta e verdura di seconda categoria dobbiamo rivolgerci ai fruttivendoli di strada, mercati generali o agricoltori che fanno vendita diretta. Le differenze sono ben visibili anche a occhio nudo, ma è impossibile sbagliare: la categoria è un’informazione che, per legge, dev’essere fornita sui cartellini della merce esposta. In ogni caso siamo tutelati dal Regolamento Europeo 1308/2013 secondo il quale l’ortofrutta fresca può essere messa in commercio solo se “di qualità sana, leale e mercantile e se è indicato il paese di origine”.”La frutta brutta ma buona si può ancora trovare, ma è diventato molto difficile, soprattutto nella grande distribuzione – dice Lorena D’Annunzio, dirigente di Unaproa, l’Unione nazionale tra le organizzazioni dei produttori ortofrutticoli”. “Questo accade un po’ perché esistono regole precise, che non consentono di immettere sul mercato prodotti difettati anche se buoni di sapore, un po’ perché è cambiato il modo di scegliere la frutta e la verdura. Oggi si usano gli stessi parametri che applichiamo a una camicia o un paio di scarpe: è solo una questione estetica. Ma non è sempre stato così: qualche anno fa, prima di vedere eventuali difetti, si odorava il frutto per capire se era buono o insapore. Nel frattempo però è cambiato il tessuto sociale, le nostre abitudini e i nostri ritmi”.
di Federico Formica
National Geographic
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